Fotografia iperrealista: intervista a Luca Meola / #URBANinsights
Nuova intervista per la serie #URBANinsights, gli approfondimenti esclusivi dedicati ai vincitori di URBAN Photo Awards. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Luca Meola, vincitore della sezione Projects & Portfolios del contest 2021 con il progetto Crackland, selezionato da Paolo Pellegrin.
Ciao Luca, grazie per aver trovato del tempo da dedicarci. Come ti presenteresti a chi ancora non ti conosce come fotografo?
Ciao a tutte e tutti e grazie a voi per l’opportunità di poter raccontare un po’ di me. Prima di essere un fotografo mi definirei una persona molto curiosa ed un viaggiatore. Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di vivere in Spagna, in Bolivia, in Senegal e da circa la fine del 2014 la mia vita si divide tra Italia e Brasile. Come fotografo il mio interesse principale sono i territori marginali, i contesti particolarmente problematici e complessi. La fotografia non è altro che un mezzo, quello che mi è sempre risultato più congeniale, che mi ha permesso di navigare in questi mondi, di raccogliere e di raccontare le storie delle persone che li abitano. L’essere umano ha una grande capacità di adattamento e nei miei progetti fotografici mi interesso di piccoli e grandi atti di resilienza e resistenza quotidiani.
Voglio congratularmi con te per “Crackland”, il portfolio vincitore di URBAN Photo Awards 2021, selezionato da Paolo Pellegrin. Ci puoi raccontare il “dietro le quinte” di questo progetto?
Questo progetto nasce da un’ossessione, la volontà di raccontare uno dei luoghi più estremi dove abbia mai messo piede. Era la fine del 2014, la prima volta che sono andato nella terra del crack. Mi ero appena trasferito in Brasile e avevo sentito parlare di un quartiere di San Paolo così chiamato per il consumo e lo spaccio a cielo aperto di stupefacenti. Mi ci ha portato un ragazzo conosciuto per strada, mi sono fidato di lui ed in cambio di qualche sigaretta mi ha condotto all’interno del fluxo, il mercato della droga, la concentrazione di più di un migliaio di persone tra trafficanti e consumatori di crack. La sensazione era di entrare in un posto a metà tra un girone dantesco e una scena post apocalittica alla Mad Max. Il consumo di crack devasta non solo chi lo consuma ma anche gli edifici del quartiere, che sono mezzi distrutti e decadenti. In queste case diroccate vivono numerose famiglie in condizione di povertà e attorno al fluxo negli anni si è sviluppato un intero sistema di servizi. La Cracolandia è una comunità, una sorta di buco nero nel centro di San Paolo, con le sue peculiarità e le sue regole ma dove c’è posto per tutti. L’obiettivo del mio progetto, cominciato nel 2018 e durato per circa 3 anni, era provare ad umanizzare un posto così stigmatizzato, cercando di descriverlo il più possibile dall’interno. Se ci sono riuscito è grazie a due persone: Il “pastore del pane”, uno spazzino che, autoproclamatosi pastore, tutti i giorni entra nel fluxo con delle donazioni e Giulia, un’ attivista, chiamata anche la madrina della Cracolandia. Sono entrambe due persone che hanno dedicato la loro vita a sostenere che è finito nell’inferno del crack: frequentare quotidianamente questo territorio con loro mi ha consentito accesso, riconoscimento e rispetto da parte di chi controlla il mercato dello spaccio.
Come descriveresti il tuo stile? Quali fotografi ti hanno influenzato?
La mia fotografia è a metà tra la fotografia di strada e la fotografia documentaria e, per i temi trattati e per il mio stile fotografico forse mi definirei “iperrealista”. Mi piace quando la realtà straborda dalle mie immagini. Mi piacciono i colori forti, la matericità dei corpi, mi piace quando quello che fotografo è così surreale da non sembrare reale, quando è quasi magico o tragicomico. Nel contempo presto molta attenzione al ricordarmi il nome e le storie delle persone di cui racconto. Mentre fotografo registro interviste, raccolgo note di campo. Cerco di trattare questo materiale così sensibile con grande cura e rispetto. Penso che la fotografia non deve solo essere un mero esercizio di stile, ma deve aspirare ad una funzione politica offrendo una chiave di lettura il più possibile profonda e sfaccettata su un dato contesto, tema e situazione.
Studio, amo e mi nutro di fotografia quotidianamente quindi ogni giorno scopro qualche autrice e autore nuovo che senza dubbio affina il mio sguardo.
Ho la fortuna di vivere per la maggior parte del mio tempo in Brasile e quindi, se proprio devo nominare qualcuno, cito due fotografi importanti per la storia della fotografia brasiliana: Claudia Andujar con il suo lavoro visionario sulle comunità indigene Yanomami e Luiz Braga per rendere così vividi i colori dell’Amazzonia. In questi anni brasiliani ho avuto la possibilità di conoscere di persona anche una nuova generazione di fotografe e fotografi che documentano da Nord a Sud, con grande rigore e passione questa terra così ricca e al contempo complicata: Isis Medeiros, Nay Jinknss, Camila Falcão, Raphael Alves, Bruno Kelly, Victor Moriyama, Rafael Vilela, gli integranti del collettivo Everydaybrasil, gli integranti del colettivo Farpa…sono i primi nomi che mi vengono in mente, perchè la lista sarebbe molto lunga. I più conoscono il Brasile solo attraverso gli occhi di Sebastião Salgado ma, senza togliere nulla al maestro, il Brasile è una terra molto ricca e variegata anche dal punto di vista della sua produzione fotografica.
Da quanto tempo fotografi? Come ti sei interessato a questo mestiere?
Ho ricevuto la mia prima macchina fotografica da bambino, perché mio zio era fotografo, ma solo nel 2003, ho realizzato il mio primo vero reportage sui ragazzi di strada di La Paz, quando per un anno ho operato come casco bianco in Bolivia. Sicuramente il mio interesse per i temi sociali è legato al fatto di essermi laureato in Sociologia e di aver lavorato fino al 2010 circa come operatore e ricercatore sociale in contesti di marginalità. Tuttora sono socio e collaboratore di Codici, un’agenzia di ricerca indipendente di Milano. Dal 2010 la fotografia è la mia unica professione e fonte di reddito. Sono fotografo documentarista freelance, pubblico i miei lavori su magazine internazionali, collaboro con ONG, tengo workshop di fotografia e necessariamente mi dedico anche a parecchi lavori commerciali, dai ritratti in studio, alla fotografia di backstage durante la fashion week sia di San Paolo che di Milano.
Che attrezzatura usi? Dedichi molto tempo all’editing delle tue immagini?
Sono passato solo nel 2009 al digitale perché prima scattavo in analogico e mi dedicavo a sviluppare e stampare in una camera oscura che avevo allestito nella stessa stanza dove dormivo. Oggi nella mia camera di Milano al posto dell’ingranditore c’è un monitor: i miei file raw grezzi non sono molto diversi dai miei negativi perché vanno sviluppati e interpretati. In realtà trovo che tutta la fotografia sia una sorta di interpretazione della realtà a cominciare dal decidere cosa includere o escludere da un fotogramma e da quali focali usare. Facendo soprattutto fotografia di documentazione non dedico eccessivo tempo al ritocco delle mie immagini mentre perdo giorni e notti alla fase di editing. Come fotografo non ragiono mai sulla foto singola: per me le singole fotografie sono come frasi che andranno poi a comporre un racconto o una poesia. Il lavoro di editing è in assoluto una delle sfide più difficili: come mettere mano a migliaia di scatti per tirarne fuori una ridotta selezione coerente da un punto di vista narrativo e stilistico per una pubblicazione, un concorso od un libro?
La mia macchina preferita è la Fujifilm X100 (ora ho la X100V perché i modelli precedenti li ho usati così tanto da averli consumati). Con la Fuji riesco a scattare in qualsiasi situazione e condizione e se esco di casa senza la macchina attaccata alla cintura mi sento nudo. Per i lavori commerciali di tutti i giorni e anche a volte per il reportage uso una Canon 5D Mark3 accoppiata a lenti fisse e zoom.
Che consiglio daresti a un aspirante fotografo che vuole approcciarsi alla fotografia in modo professionale?
Tutti i giorni mi dico che il più grande talento è la determinazione e la mia più grande motivazione è poter vivere di quello che più di tutto amo fare nella vita. Io amo la fotografia e mi ci dedico tutti i giorni anche perché, a parte forse cucinare, credo di non sapere fare altre cose altrettanto bene. Oggi non è facile campare di fotografia, campare di reportage ancora meno. Nel mio piccolo ho trovato un compromesso e mi divido tra lavori più commerciali e i miei progetti di reportage di lungo periodo. Non disdegno nessun tipo di fotografia e vi assicuro, imparo sempre qualcosa. Per molte estati dal Brasile tornavo in Italia e facevo il fotografo di matrimoni: se oggi riesco a scattare col flash in qualsiasi tipo di situazione, è anche grazie a questa esperienza di lavoro. Se infine dovessi dare dei consigli ad un neofita, sarebbero gli stessi che do tutti i giorni a me stesso:
- nutrirsi quotidianamente di fotografia, arte, cinema, letteratura e qualsiasi cosa sia uno stimolo
- appassionarsi a storie inedite, che valga la pena raccontare, il mondo ne è pieno e trovare il proprio stile per narrarle
- abituarsi a ricevere dei no… sono molti di più i concorsi che non vanno, i photoeditor che non ti rispondono e le riviste che non ti vogliono pubblicare. Bisogna solo insistere
- uscire sempre e costantemente dalla propria comfort zone…si rischia, è faticoso ma è l’unica forma di produrre qualcosa di valido
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? A cosa stai lavorando ora?
È un momento molto bello per la mia vita lavorativa. A gennaio pubblicherò il mio primo libro fotografico e si chiamerà Selva de Pedra, la giungla di cemento, un racconto molto personale e reale della città di San Paolo e del Brasile di oggi. Questo libro sarà diviso in cinque capitoli: oltre alla terra del crack, ci sarà un mio primo lavoro sul centro di San Paolo (Cidade da Garoa fu esposto a Trieste Photo Days nel 2016) , un lavoro sul carnevale di strada, un progetto su una terra indigena per chiudere con un reportage su una favela di periferia. Sono tutti territori “marginali”, mondi periferici che convivono nella città di San Paolo, che ho attraversato e raccontato nei miei ultimi 6 anni di vita. Il libro sarà stampato da selfselfbooks di Milano e sarà distribuito in librerie specializzate o attraverso il mio sito.
A febbraio sarò finalmente di ritorno in Brasile con un viaggio di esplorazione lungo il Rio Negro dell’Amazzonia, un progetto finanziato da un istituto di ricerca. Il Brasile di oggi è un paese devastato dalla pandemia e da una crisi generalizzata politica, economica e sociale. Nel prossimo anno cercherò di stare in prima linea a fotografare e raccontare questo momento così difficile ed intenso di un paese estremo e meraviglioso che anni fa mi ha adottato e dove fin dal primo giorno mi sono sentito a casa.
www.lucameola.com
IG: @lucameola1977