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Preservare la memoria attraverso l’obiettivo: il progetto di Mauro Zorer vince il prestigioso Premio Musei Civici

Photo © © Mauro Zorer - 22 GIUGNO 1944 - LA MARCIA DEI BAMBINI


Preservare la memoria attraverso l’obiettivo: il progetto di Mauro Zorer vince il prestigioso Premio Musei Civici

Per il settimo anno consecutivo, la collaborazione tra URBAN Photo Awards e il Servizio Promozione Turistica, Musei, Eventi Culturali e Sportivi del Comune di Trieste darà vita a una prestigiosa mostra-premio al Civico Museo Sartorio per un progetto finalista all’edizione 2024 del contest.

Nell’ambito di una rosa suggerita dagli organizzatori del Festival, sono stati selezionati i vincitori del Premio “Musei Civici” da Claudia Colecchia (funzionario direttivo archivista, responsabile della Fototeca e Biblioteca dei Civici Musei di Storia ed Arte del Comune di Trieste) e Michela Messina (conservatrice del Civico Museo Sartorio).

La mostra dei progetti vincitori è parte degli eventi del Trieste Photo Days 2024I quattro autori vincitori saranno premiati alla Cerimonia di Premiazione di URBAN Photo Awards, sabato 26 ottobreall’Auditorium “Marco Sofianopulo” del Civico Museo d’arte moderna Revoltella.

Foto dei progetti URBAN esposti al Museo Sartorio nel 2023.

Il progetto vincitore

Il progetto fotografico “22 GIUGNO 1944 – LA MARCIA DEI BAMBINI” rappresenta un viaggio toccante attraverso la memoria e il paesaggio, nel tentativo di preservare e restituire storie che rischierebbero di essere dimenticate. L’autore, con grande sensibilità e dedizione, ha saputo trasporre in immagini un passato che rivive attraverso lo sguardo odierno, evocando con forza il dramma e la bellezza della vita durante il conflitto. Questo progetto fotografico, accompagnato da un testo altrettanto profondo, ci invita a riflettere sul potere della memoria e sull’importanza di proteggerla.

“Gli eventi che accadono coinvolgono persone e luoghi apparentemente in modo transitorio. In verità per quanto il tempo e la natura alterino il dato umano e paesaggistico, ogni volta c’è qualcosa che permane inesorabilmente, e lo fa attraverso la memoria. Essa tiene vivo ciò che – proprio in quanto accaduto – non smetterà mai più di essere, a patto che venga ricordato.
Proprio la memoria è il nucleo di questo toccante progetto fotografico, capace di soffermare il proprio sguardo sul presente per evocare un tempo e un’opera che meritano di essere preservati da ogni falcidia.”

Mauro Zorer

Il testo completo è disponibile in fondo all’articolo.

Descrizione del progetto di Mauro Zorer

Gli eventi che accadono coinvolgono persone e luoghi apparentemente in modo transitorio. In verità per quanto il tempo e la natura alterino il dato umano e paesaggistico, ogni volta c’è qualcosa che permane inesorabilmente, e lo fa attraverso la memoria. Essa tiene vivo ciò che – proprio in quanto accaduto – non smetterà mai più di essere, a patto che venga ricordato.
Proprio la memoria è il nucleo di questo toccante progetto fotografico, capace di soffermare il proprio sguardo sul presente per evocare un tempo e un’opera che meritano di essere preservati da ogni falcidia. Tutto comincia in un luogo, una grande villa che si erge solitaria tra crete e boschi senesi e che dal 1924 diventa la residenza dei coniugi Origo. Il luogo è brullo, la campagna a tratti inospitale e desertica viene paragonata alla vacuità d’un paesaggio lunare, in cui la monotonia arida del terreno è interrotta da linee assimilabili a dorsi di elefante. Tuttavia, in questo ambiente di forte privazione, la Foce (il nome della villa contiene già in sé una promessa di purezza e di inizio) diventa un microcosmo in cui si sperimenta un modello di agricoltura razionale, e si praticano quotidianamente la solidarietà, l’accoglienza, l’esercizio dell’umanità.

Soprattutto durante la fase più acuta della seconda guerra mondiale, la dimora di Iris e Antonio Origo diventa rifugio per tutti gli indifesi: fuggiaschi dai campi di concentramento, vecchi ebrei tremanti, richiamati alle armi che rifiutavano di servire i tedeschi, partigiani feriti, bambini sfollati a seguito dei bombardamenti. Proprio questi ultimi, il 22 giugno del 1944, vivranno un episodio passato alla storia come la marcia dei bambini. Un vero e proprio esodo che dalla Foce, attraverso campi e sentieri poco esposti, giungerà a Montepulciano. Il racconto che ne fa Iris Origo nel suo memoriale “Guerra in Val d’Orcia” è denso di pathos: gli eventi bellici incalzano, molte strade sono impercorribili o pericolose (quindi bisognerà camminare lesti e tenersi nel mezzo per scansare le mine), tuttavia occorre mettere in salvo i bambini. Quel giorno si parte all’improvviso, carichi del poco che ognuno riesce a portare con sé, giusto un sacchetto di pane, il paltoncino, un maglione. Ma in realtà ogni bambino porta con sé anche altro: ed è la bellezza, il candore, soprattutto la capacità di rileggere la realtà attraverso la propria innocenza. Questo permette loro di affrontare la marcia come fosse una scampagnata, un’avventura e di lamentarsi più per aver pestato un formicaio che per il dramma incombente.

Ogni volta che si tenta il racconto di un episodio del passato si compie un’operazione di recupero dell’inesistente. I luoghi sono ancora lì ma, il tempo li ha smussati, modificati; le linee del paesaggio assumono nuove fisionomie e laddove c’era un sentiero potrebbe essersi sovrapposta un’abitazione. Ci si misura in definitiva con una duplice nozione di tempo: quello del prima e del dopo. Un Arithmos kineseos che, in termini aristotelici, pone in gioco non tanto lo scarto tra queste due dimensioni ma la loro complementarietà, se il primo è l’eziologia del secondo e con esso origina il senso del divenire. Crea cioè il tempo.

Lo sguardo che ha attraversato e indagato i luoghi in cui Iris costruì un percorso di salvezza, ha voluto cercare nell’oggi un tempo anteriore. Non ha pedissequamente seguito una traccia, ma l’ha evocata ritrovandola nel presente. Allora le nuvole basse raccontano la distanza incolmabile tra la terra dolorante di guerra e un cielo senza pericolo; gli alberi in secca di vita sono simbolo di quella guerra capace di asciugare anche la linfa; le crepe che percorrono la pietra di un edificio diventano il correlativo oggettivo di un dolore imposto e subito; mentre l’ombra sghemba che si staglia su un muro si fa spia di un malessere che inchioda persino la luce.

Tuttavia in questo lavoro non esiste solo la bidimensionalità cronologica, ma anche quella tonale, se al buio, all’ombra si contrappone la luce. È quella che irradia Iris ritrovata nella frondosa e protettiva maternità di un leccio; è la luminosa e fragile innocenza di un agnello che racconta il candore, lo stupore di ogni nuova e giovane vita; è quella sovrastante i bambini che l’immaginario del racconto fotografico riconosce negli alberi, ora in fila ora isolati, radicati alla terra eppure protesi verso l’alto. Gli alberi-bambini, nella loro immersione nel paesaggio, diventano i custodi silenziosi di una memoria che resiste, testimoni di un tempo che smette di essere lontano per mutarsi in permanenza. La fuga, descritta dal Calamandrei come un “volo d’angeli” –  icasticamente colto nell’immagine della mano da cui si dipartono le appendici piumose del tarassaco – è una traslazione. Nulla è, eppure tutto ancora può esistere: lo sguardo accetta questa sfida e osserva. Va oltre la terra calpestata dai bambini, oltre la distruzione e la morte. Travalica le colline sinuose, attraversa i sentieri del bosco e i campi fitti di grano, verso la salvezza e la luce. L’uomo in tutto ciò è ovunque, ed è capace di salvare e distruggere, di imprimere nuove linee nel paesaggio (cicatrici che assomigliano a quelle inferte all’immaginario dei piccoli in marcia), ma anche di proteggere e accudire una memoria, evocandola con la forza e il coraggio della propria umanità.

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